Controllare l'inevitabile, dai robot alle auto

di Kevin Kelly 29/03/2018 10:04
Controllare l'inevitabile, dai robot alle auto

Il primo impulso umano, confrontandosi con le tecnologie estreme che si sviluppano grazie al digitale, potrebbe essere quello di respingerle, fermarle, proibirle, rinnegarle, o quanto meno renderle difficili da usare. Ma è la strada corretta e conveniente? Uno studioso ha un’idea precisa partendo dalla propria esperienza di quando da ragazzino…

Quando avevo 13 anni mio padre mi portò a vedere una fiera di computer ad Atlantic City, nel New Jersey. Era il 1965, ed era elettrizzato da queste macchine grosse quanto una stanza, costruite dalle aziende più all’avanguardia d’America, come per esempio Ibm. Mio padre credeva nel progresso, e questi primi computer erano scorci del futuro che immaginava. Dal canto mio, ero piuttosto indifferente, da buon adolescente. I computer che riempivano l’immensa sala d’esposizione erano tutti noiosi: non c’era nulla da vedere, tranne qualche metro quadro di armadietti rettangolari di metallo; non un singolo schermo, né dispositivi vocali di input o output. 

Nel 1981 sono riuscito a mettere le mani su un computer Apple II in un laboratorio di scienze all’Università della Georgia, dove lavoravo. Malgrado avesse un piccolo schermo nero e verde che mostrava del testo, non fui colpito nemmeno da questo. La mia opinione cambiò totalmente qualche mese dopo, quando collegai lo stesso Apple II alla linea telefonica attraverso un modem. All’improvviso era tutto diverso: c’era un universo che emergeva dall’altro capo del doppino telefonico, ed era enorme, quasi infinito. C’erano bacheche online, tele conferenze sperimentali, e questo luogo era chiamato Internet, un portale dava su un mondo allo stesso tempo vasto e a misura d’uomo. Sembrava così strutturato e favoloso, capace di connettere intimamente persone e macchine: avvertivo che la mia vita stava facendo un salto di qualità.(…)

«Inevitabile» è una parola forte: fa scattare l’allarme rosso in certe persone che obiettano che nulla è inevitabile, che affermano che la forza di volontà e l’intenzione dell’uomo possono, e dovrebbero!, deviare, sopraffare e controllare qualunque tendenza artificiale. Secondo il loro punto di vista, «l’inevitabilità» è una scappatoia con cui si rinuncia all’esercizio del libero arbitrio. Quando la nozione dell’inevitabile è forgiata attraverso tecnologie stravaganti, come avviene in questo libro, le obiezioni a un destino prestabilito si fanno ancora più accanite e intense.

Una definizione di «inevitabile» è fornita dal risultato finale del classico esperimento mentale del riavvolgimento: secondo un’interpretazione forte dell’inevitabilità, se riavvolgessimo il nastro della storia fino all’inizio del tempo e ripercorressimo la nostra civiltà dal principio ancora e ancora, ogni volta, a prescindere dal numero dei tentativi, ci ritroveremmo con gli adolescenti che twittano ogni cinque minuti. Ma non è questo che voglio dire.

Intendo inevitabile in un altro modo: c’è una predisposizione nella natura della tecnologia che conduce in certe direzioni e non in altre. A parità di condizioni, la fisica e la matematica, che governano le dinamiche della tecnologia, tendono a favorire determinati comportamenti. Queste tendenze esistono principalmente come complesso di forze che modellano i contorni generali della forma tecnologica, senza governare istanze particolari o specifiche. Per esempio, se la formazione di un Internet, una rete di reti che attraversa il globo, era inevitabile, il tipo specifico di Internet che abbiamo deciso di avere non lo era. Internet sarebbe potuto essere commerciale anziché non-profit, un sistema nazionale invece che internazionale, oppure segreto piuttosto che pubblico. La telefonia era inevitabile, ma l’iPhone no. Se la forma generica di veicolo a quattro ruote era inevitabile, non lo era il suv. La messaggistica era inevitabile, ma non il twittare ogni cinque minuti.

Trasformazioni troppo rapide - Twittare ogni cinque minuti non è inevitabile anche per un altro motivo. Ci trasformiamo così rapidamente che la nostra abilità di inventare cose nuove non sta al passo con la velocità con cui siamo in grado di civilizzarle. Al giorno d’oggi, alla comparsa di una tecnologia, ci vuole un decennio perché si sviluppi un consenso sociale intorno al suo scopo e all’etichetta necessaria per addomesticarla. Tra altri cinque anni verrà trovato un modo educato di twittare, così come ne è stato trovato uno per risolvere il problema dei telefoni cellulari che squillavano ovunque (la vibrazione silenziosa). Allo stesso modo, questa risposta iniziale scomparirà velocemente e non sarà considerata essenziale né inevitabile.

Il tipo di inevitabilità di cui sto parlando, per quanto riguarda il regno digitale è il risultato dello slancio di un cambiamento tecnologico tuttora in corso. La forte corrente che ha modellato le tecnologie digitali negli ultimi trent’anni continuerà a espandersi e ad affermarsi nei prossimi trenta, non solo in Nord America, ma nel mondo intero. Nel corso di questo libro uso esempi provenienti dagli Stati Uniti, per una questione di familiarità, ma per ognuno avrei potuto trovare facilmente un esempio corrispondente in India, Mali, Perù o Estonia. I veri leader nell’ambito delle valute digitali, per esempio, sono in Africa e Afghanistan, dove a volte il denaro elettronico sembra essere l’unica valuta funzionante. La Cina è più avanti di chiunque altro nello sviluppo di applicazioni per la condivisione su dispositivi mobili. Tuttavia, sebbene la cultura possa anticiparne o ritardarne l’espressione, le forze sottostanti sono universali.

Dopo aver vissuto online per gli ultimi tre decenni(...) la mia fiducia in questa inevitabilità è basata sulla profondità di tali cambiamenti tecnologici. La fascinazione quotidiana per le novità hi-tech scorre sopra correnti lente. Le radici del mondo digitale affondano nei bisogni fisici e nelle propensioni naturali di bit, informazioni e reti. Qualunque sia la geografia, qualunque sia l’azienda, o le politiche, questi ingredienti fondamentali di bit e reti porteranno continuamente a risultati simili; la loro inevitabilità deriva dalla loro fisica di base. (...) Non sempre il cambiamento sarà ben accolto: industrie avviate cadranno perché il loro vecchio modello di business non funzionerà più; intere occupazioni scompariranno, insieme con i mezzi di sostentamento di alcune persone; nasceranno nuove occupazioni che avranno diversa fortuna e causeranno invidia e disuguaglianza.

Il seguito e l’estensione delle tendenze che ho delineato sfideranno i presupposti legali correnti, cammineranno sul ciglio dell’illegalità; saranno di ostacolo ai cittadini rispettosi della legge. Per sua natura, la tecnologia delle reti digitali scuote i confini internazionali, perché è senza confini. Ci saranno tormenti, conflitti e confusione, oltre a benefici incredibili. Il nostro primo impulso, confrontandoci con tecnologie estreme che si sviluppano in questa sfera digitale, potrebbe essere quello di respingerle, fermarle, proibirle, rinnegarle, o quanto meno renderle difficili da usare. (...) Mettere al bando l’inevitabile, solitamente, sortisce l’effetto opposto: la proibizione è al più temporanea, e controproducente nel lungo periodo.

Un’accettazione vigile e con gli occhi bene aperti funziona molto meglio. Il mio scopo in questo libro è svelare le radici del cambiamento digitale, in modo che possiamo accettarle; una volta identificate, possiamo lavorare con la loro natura, piuttosto che lottarci contro. La copiatura selvaggia è una pratica consolidata; il tracciamento su larga scala e la sorveglianza totale sono pratiche consolidate; la proprietà si sta spostando; la realtà virtuale sta diventando reale. Non possiamo impedire allintelligenza artificiale e ai robot di migliorare, creare nuove imprese e sostituire le nostre occupazioni attuali. Anche se può essere contrario al nostro impulso iniziale, dovremmo accogliere il continuo rimescolarsi di queste tecnologie. È solo lavorando con esse, invece di cercare di sventarle, che possiamo ottenere il meglio da quello che hanno da offrire. Non intendo sostenere che non dobbiamo metterci mano: è necessario gestire queste invenzioni in modo da prevenire danni effettivi (in contrapposizione a quelli ipotetici), con mezzi sia legali che tecnologici. Abbiamo bisogno di civilizzare le nuove invenzioni e domarne i dettagli, ma ciò sarà possibile solo attraverso un profondo coinvolgimento, l’esperienza diretta e una vigile accettazione. Possiamo e dovremmo regolare i servizi taxi alla maniera di Uber, per esempio, ma non possiamo e non dovremmo cercare di impedire l’inevitabile decentralizzazione dei servizi. Queste tecnologie non se ne andranno. 


 

 


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