L’invasione degli ultranumeri

17/01/2018 16:26
L’invasione degli ultranumeri

Gli algoritmi fanno con meno errori quel che richiedeva finora l’uso della testa. Ma è sbagliato averne paura. Servono a distillare il meglio, a estrarre valore dallo tsunami di informazioni digitali che presto raddoppieranno ogni 12 ore. Spiega in che modo, lo scienziato Mario Rasetti, autorità mondiale per i big.

"La rivoluzione è già cominciata", ha avvertito New Scientist, il settimanale di scienza e tecnologia più letto al mondo, a proposito degli algoritmi che stanno cambiando le nostre vite. E per dimostrarlo ha citato diversi esempi: le email inviate al supermercato britannico Ocado, lette, elencate in ordine di priorità e inoltrate da un’applicazione basata sull’algoritmo TensorFlow di Google. O le applicazioni che rispondono nei call center al posto di un addetto in carne e ossa, che ci chiedono cosa vogliamo e inoltrano la chiamata in base alla nostra risposta. Applicazioni di intelligenza artificiale già approvano o respingono le richieste di mutuo, stabiliscono i premi assicurativi, scoprono le frodi fatte con le carte di credito. Ci sono algoritmi che funzionano meglio degli esseri umani nel marketing online, nella previsione di sentenze in base a casi analoghi precedenti, nella consulenza finanziaria, nella redazione di rapporti sui risultati di un’azienda. L’elenco potrebbe continuare a lungo, spaziare da Google all’assistente digitale Siri, dagli algoritmi sempre più raffinati di Facebook a quelli che governano le automobili che si guidano da sole.

Ma che cosa accadrà domani? Oltre a minacciare la nostra privacy, gli algoritmi ci ruberanno il lavoro? Finiranno per controllarci, addirittura dominarci, come hanno paventato menti brillanti, dall’astrofisico Stephen Hawking («L’intelligenza artificiale potrebbe provocare il più grande disastro della storia umana») a Elon Musk, l’imprenditore padre di Paypal e della Tesla Motors («È un pericolo molto maggiore della Corea del Nord»)? «La parola algoritmo, in realtà, arriva da quasi 3mila anni fa», smorza gli allarmismi, con la semplicità che lo distingue, Mario Rasetti, il professore di fisica teorica italiano che è un’autorità mondiale in campi come la complessità del calcolo, la computazione quantistica e la scienza dei big data (riquadro a sinistra). «C’era un signore, Abu Abdallah Muhammad ibn Musa, che tutti chiamavano al-Khorezmi dal nome dell’oasi in cui era nato nel 780 a.C. circa. Suo padre aveva fondato nella Casa della saggezza, l’accademia delle scienze di Baghdad dove nacque la matematica moderna. Lui la ereditò e la portò al massimo splendore. Algoritmo deriva da qui, da un personaggio storico importantissimo come al-Khorezmi. Quanti oggi immaginano una presa di potere degli algoritmi dovrebbero non preoccuparsi tanto».

Forse i timori dipendono dal fatto che pochi sanno cos’è un algoritmo. Il professor Rasetti sorprende: «Tutti rammentiamo le divisioni che ci hanno insegnato alle scuole elementari: prendi il divisore, guardi nella prima parte del dividendo quante volte ci sta, moltiplichi, sottrai, abbassi una cifra e poi ricominci. Questo è un algoritmo. È semplicemente un insieme di istruzioni con le quali si svolgono dei processi». La nostra vita, puntualizza, «è piena di algoritmi da sempre. Naturalmente lo è ancor di più la vita contemporanea, nella quale scienza e tecnologia giocano un ruolo che prima non avevano».

E gli algoritmi cosiddetti intelligenti, quelli che imitano proprio il modo in cui pensa e ragiona un essere umano? Rasetti ricorda che «la tecnologia ha sempre aiutato l’uomo a faticare meno. Poiché ora siamo in grado di far funzionare questi algoritmi, anche quelli più elementari, a velocità strepitose, la tecnologia è in grado di aiutarci a fare meglio, più rapidamente e con meno errori anche pezzi di lavoro che richiedono l’uso della testa. Questo è il fatto nuovo. La vera rivoluzione, se si vuole, è questa». Quando poi gli si chiede quali algoritmi ci stanno cambiando la vita, la risposta dello scienziato pare trasportarci in un presente dai contorni futuribili: «Abbiamo algoritmi che riconoscono la scrittura, distinguono quella a mano da quella a stampa, scrivono testi essi stessi, descrivono il contenuto di filmati e fotografie. Il 70% di tutte le transazioni finanziarie è ormai regolato da algoritmi. Il 30% degli articoli che leggiamo è generato da macchine con tecniche di intelligenza artificiale. È un processo inesorabile che toccherà molte categorie di lavoratori, oltre ai giornalisti, prima o poi anche i medici». Prospettiva poco rassicurante…

«La medicina di precisione, grazie ai dati su tutta la storia clinica di un paziente, sul suo codice genetico e magari anche quello dei genitori, comparati con quelli di altri milioni di casi, può curare ogni persona in un modo mirato che non ha precedenti. Questo cambierà la professione del medico. Certo nessuno abolirà i medici, né saranno cancellate tante professioni, ma dovranno cambiare radicalmente». Non c’è scampo: «Il processo di digitalizzazione sempre più forte che è in corso ci cambierà davvero la vita, ma sicuramente in bene. Anche se ci sarà un periodo di passaggio nel quale sarà anche difficile confrontarsi con ciò che accade».

Oggi 5 miliardi di persone possiedono almeno un cellulare. Le telefonate, gli sms, i whatsapp, le centinaia di migliaia di ricerche su Google e i post su Facebook che facciamo ogni secondo, praticamente tutto quello che facciamo lascia una traccia digitale. C’è un indicatore che dà il senso di questa marea di dati: «Lo definiamo il tempo di raddoppio, cioè il tempo che occorre per produrre una quantità di dati uguale a quella prodotta in tutta la storia dell’umanità fino a quel momento», spiega Rasetti. «Nel 2017, per la prima volta, il tempo di raddoppio è stato inferiore a un anno, esattamente 11 mesi: da gennaio a novembre abbiamo prodotto tanti dati quanti ne erano stati prodotti in tutta la storia umana fino alla fine del 2016». Il tempo di raddoppio è destinato ad accorciarsi ancora con «l’internet delle cose, quei dispositivi di cui ci circondiamo e ci circonderemo sempre più perché ci aiutano a vivere: dagli wearable, gli apparecchi che ci si mette addosso per misurare battito cardiaco, pressione del sangue, glicemia, colesterolo e chi più ne ha più ne metta, ai congegni che sulle automobili indicano quanto è distante l’auto che ti precede, ti aiutano a frenare quando ti distrai, addirittura riconoscono i segnali stradali». Fatti i conti, «si stima che tra 7-8 anni i dispositivi di questo tipo messi in rete, fra loro e con gli esseri umani, saranno 150 miliardi. Ci troveremo questa mostruosa rete di oggetti e uomini che producono dati, e il tempo di raddoppio dei dati scenderà a 12 ore. Ecco perché abbiamo bisogno degli algoritmi: per distillare informazioni da questo tsunami di dati e per estrarne valore, cose utili e positive».

Gli algoritmi controlleranno il mondo? È la domanda che molti si fanno: finiremo controllati da robot più veloci, più efficienti di noi, che sfruttano una quantità di dati che non sappiamo elaborare e non commettono errori? La risposta di Rasetti è no, non finirà così. «Vado contro l’opinione di un caro amico come Stephen Hawking, che secondo me in questo caso non ha riflettuto abbastanza. Non saremo mai controllati dai robot e quindi non corriamo il rischio, per esempio, che la decisione di scatenare una guerra nucleare venga presa da una macchina. La prima battuta che viene in mente è che forse preferirei che a decidere se schiacciare quel bottone fosse un robot, e non Kim Jong-un o Donald Trump. Ma quel che voglio dire è che noi sottovalutiamo il nostro cervello, la cosa più straordinaria e grandiosa che esista sulla superficie della Terra, che non è riproducibile». Da autore di ricerche di frontiera nelle neuroscienze qual è, Rasetti è tassativo: «Non esiste in questo momento, e credo non esisterà mai, una macchina prodotta dall’uomo che possa fare quel che fa il cervello umano. Se qualcuno affermasse di averne costruita una, mentirebbe spudoratamente.

Il mio amico Edsger Dijkstra, che è un grande computer scientist, dice che chiederci se una macchina è capace di pensare è come domandarsi se un sottomarino sa nuotare. Le macchine fanno solo quello che gli abbiamo insegnato a fare. Magari anche qualcosa di inaspettato, però solo quando riempiono un vuoto della nostra logica. E a volte sbagliano. Il dispositivo della Volvo che frena quando un pedone attraversa la strada è andato in crisi quando non è riuscito a riconoscere un canguro».

L’etica dell’algoritmista - Rasetti non ha dubbi sui risvolti morali della rivoluzione in corso: «L’algoritmo di per sé non ha un’etica e non si può chiedergli di averla». È uno strumento, di per sé è neutro, tutto dipende da come si utilizza. È allora dell’etica dell’algoritmista, di chi utilizza gli algoritmi, che ci si dovrebbe preoccupare? «Sì, certo, ma questo vale per tutto. Io sono un fisico e quando cominciai la regina della nostra scienza era la fisica nucleare. Da un lato, ci saremmo fatti tagliare una mano piuttosto che dire: no, non voglio conoscere le regole che presiedono al funzionamento del nucleo atomico. Dall’altro, quando invece di usarlo per curare i tumori fu utilizzato per le bombe, ci rendemmo conto che c’era qualcosa di perverso nel sistema di controllo. Ciò ha lasciato in tutti noi una ferita profondissima, ma è sempre successo e temo che sempre succederà.

Come tutte le tecnologie, anche il digitale si presta a usi impropri, però è un’occasione unica nella storia dell’uomo, è una rivoluzione paragonabile a quella avvenuta con l’invenzione della stampa», afferma Rasetti, spiegando quanto i caratteri mobili di Johannes Gutenberg abbiano significato per «lo spostamento degli equilibri di potere, rendendo accessibile la conoscenza a masse alle quali prima era assolutamente vietata, possibile lo scambio e la diffusione di idee, il confronto di sistemi di vita». Il digitale, assicura il professore, «sarà una rivoluzione ancora più grande, più capillare e profonda, perché è un modo di distribuire il sapere e la capacità di decidere a gerarchie della popolazione totalmente diverse dal passato».

Alessandra Gerli


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