Made in Italy

di Luciano Santilli (Direttore) 25/05/2018 19:12
Made in Italy

Il bollettino della vittoria commerciale risuona sfolgorante: l’Italia nel 2017 ha venduto all’estero per circa 450 miliardi. E certo non solo per l’agroalimentare e la moda. Il made in Italy colleziona primati in tanti settori.

Per un paese senza grande tradizione militare, il bollettino della vittoria commerciale risuona invece sfolgorante: tirate le somme a dicembre, l’Italia ha scoperto di avere venduto nel 2017 all’estero per circa 450 miliardi. E ci sono le piccole vittorie quotidiane, come Lavazza che conquista un avamposto a Hollywood, preparando il cappuccino personalizzato per i divi e consolidando assieme al suo marchio il primato nazionale nel caffè degno di questo nome. La solita Italia che vince a tavola e nella moda? Eh no, un altro primato è quello del settore valvole hi-tech, che ha come unico freno i divieti verso i paesi soggetti a sanzioni: un’assurdità presto superata dalle semplificazioni decise dal ministero dello Sviluppo economico.

È forte esportatrice l’industria dei robot, dal gigante Comau alle pmi specializzate: si vendono in Germania come in Cina. Mirandola e la Medical Valley emiliana sono l’hub leader nel biomedicale, con un primato sia qualitativo sia innovativo, tanto che aziende di tutto il mondo diedero una mano a ritirare su i capannoni dopo il terremoto: fu necessità, non si sostituiscono facilmente fornitori essenziali, non fu soltanto generosità. Sofisticate sono le tecnologie di packaging che l’Italia offre al mondo: macchine per inscatolare, imbottigliare, dosare, richieste in Nord Europa come in America e in Asia. Il caso della Ima di Ozzano dell’Emilia, quotata e abbonata alla crescita di fatturato e margini, parla per tante altre. Solo l’Emilia-Romagna, per restare nell’esempio di una regione con export pro capite di almeno 12.500 euro, conta 20 distretti specializzati e almeno 500 imprese ormai di dimensioni medie (fatturati oltre 300 milioni), a riprova che è in corso una trasformazione di tante piccole e medie imprese, da p verso m, spinta proprio dal modello di business orientato all’export.

Per le eccellenze di Lombardia (esportazioni a quota 120 miliardi nel 2017, +7,5%) e Lazio (+23,1% le vendite in Germania) si possono per esempio citare i principi attivi farmaceutici, che valgono 3,6 miliardi, il 3,5% impiegato in ricerca, e vengono esportati all’85%: 88 aziende coprono il 9% della produzione di fattori decisivi per la salute dell’umanità. Quando le multinazionali di Big pharma vogliono espandere ricerca, produzione e vendite, devono inserirsi nella filiera italiana, che ha tassi di crescita e dinamismo superiori a quella tedesca. La farmaceutica toscana, per esempio, ha aumentato l’anno scorso le esportazioni del 60%. Il grande storico dell’economia Carlo Cipolla trovò una felice sintesi per definire il ruolo dell’Italia sui mercati mondiali: vendere bellezza.

E certo si può ricordare che la cosmetica Made in Italy vende all’estero per 4,7 miliardi (+9%). Così come tutti riconoscono la continuità del primato artistico trasmesso a quello del design e della moda (una mostra a Firenze lo documenta), arrivata a 54,1 miliardi di ricavi, per il 56% da export. Però quella definizione suona riduttiva per un paese che, pur con mercato interno modesto se paragonato alla dimensione planetaria, vanta una manifattura capace e tenace, nonostante i 10 duri anni della crisi. Semplice la spiegazione: perché ha raggiunto tali e tanti primati qualitativi, che diventano record di export, da metterla in importanti settori al riparo dai cicli recessivi e nel rango delle potenze geopolitiche.

Italia numero uno non solo in piastrelle ma anche in navi passeggeri e da crociera; numero due non solo in lavori in ferro e acciaio ma anche in conduttori elettrici; numero tre non solo in mobili ma anche in trattori, ingranaggi e parti di turbine a gas… A conferma che l’export è il termometro più importante di salute economica, e che la ripresa ha acquistato velocità, c’è un gran traffico di merci in uscita: +10%, per esempio, i cargo aerei. Tutto ciò fotografa uno stato eccellente per il Made in Italy, che gode di una credibilità non sminuita dalle contraffazioni.

D’altra parte, che cosa sono i falsi se non una conferma dell’eccellenza che tutti vogliono imitare per vendere? Non è stato sempre così, bisogna ricordarsene, per misurare una straordinaria evoluzione. Producevamo stracci, nel dopoguerra, oggi vendiamo il cashmere più fine, tessuti e creatività inimitabili. «Fix It Again, Tony», sghignazzavano gli americani per le automobili made in Turin troppo spesso dal meccanico; Fca è oggi il gruppo auto che più cresce negli Usa, fabbrica in Sud Italia le Jeep e ha trionfalmente quotato la Ferrari a Wall Street. L’export di tutto il comparto auto italiano a fine anno risultava in crescita di 2,5 miliardi, componentistica e macchinari hanno incrementato di altri 4,7. L’evoluzione del sistema Italia dalle copie low cost di invenzioni altrui ai prodotti top scopiazzati dagli altri si riassume in un numero: nel 2017 sono saliti del 4,7% i prezzi medi unitari dei prodotti esportati, in un mercato tanto globalizzato quanto duro. Risultato possibile perché il Made in Italy si va spostando nelle fasce di qualità. Viene in mente un solo parallelo: con l’industria giapponese.

Tante sono le perle nascoste italiane. Aziende capaci di avvicinarsi al 90% di export o di superarlo, al pari dei 15 top della moda, in testa Luxottica (96,7%), Zegna (92,5%), Ferragamo (88,6%). Anzi, le cosiddette multinazionali tascabili per effetto della propria crescita devono insediarsi nei paesi grandi clienti. Esempi noti sono Brembo che apre un’altra fonderia negli Usa per i suoi freni e medita una rilevante acquisizione in Cina, o Pastificio Rana con un secondo stabilimento americano; in complesso gli investimenti di società italiane negli Usa toccano i 30 miliardi, e a volte passano per l’acquisizione di intere aziende, come ha fatto la Ferrero rilevandone due che significano capacità produttiva in loco e 2 miliardi di fatturato aggiuntivo.

Poco noti, invece, casi come la Adler (componentistica) che ha appena inaugurato uno stabilimento alle porte di Detroit o la fiorentina Officine Mario Dorin, settore refrigerazione industriale, con tecnologie a CO2 invece dei meno ecologici compressori ad ammoniaca, che con due terzi del fatturato all’estero ha aperto uno stabilimento in Cina. O le 3.741 aziende insediate in Europa centro-orientale, non solo per risparmiare sul costo del lavoro (hanno 100mila dipendenti) ma per presidiare da vicino quei mercati, oltre che con strutture societarie, di marketing, o con flagship store, con impianti produttivi che utilizzano know-how italiano e fanno utili da riportare a casa, e che dunque hanno positivi effetti pari all’export tradizionale.

Se poi la modesta dimensione e la gelosia per i segreti produttivi sconsigliano di delocalizzare, c’è internet: con l’ecommerce tanti piccoli imprenditori e artigiani possono entrare nei mercati internazionali, Amazon, Alibaba e simili fanno da rete vendita: l’anno scorso le microaziende solo tramite i canali online hanno venduto all’estero per 350 milioni (+19%). La convenienza dell’ecommerce porta naturalmente anche marchi famosi a risultati rilevanti: le vendite online di Prada sono esplose (+24%) nel 2017 anche grazie al lancio di una piattaforma in Cina.

Facile poi dimenticare, nel paese che in svariati settori manifatturieri supera o tallona la Germania, verso la quale ha dimezzato il deficit commerciale (a 10 miliardi), le esportazioni impalpabili, cioè nei servizi richiesti dalla società digitale. Capital ha raccontato la vicenda esemplare della Sia, leader in Europa nella movimentazione elettronica del denaro. È il risultato di competenze informatiche che nascono negli atenei migliori trasformate in applicazioni, oltre che di un’antica capacità d’innovazione finanziaria: l’invenzione della partita doppia come della moderna banca (Lombard street è nel cuore della City).

Fare attenzione ai successi che non hanno il glamour e la risonanza delle passerelle di Milano e Firenze, o la notorietà di vini e formaggi sovrani sulle tavole nel mondo, non significa dunque cercare l’originalità. Il vino vale pur sempre 6 miliardi di export, con le altre specialità il settore food arriva a 40; e la Francia, paese concorrente e avanzato quanto il nostro, ha proprio l’agroalimentare e la moda come voci prevalenti delle esportazioni, sebbene veda erose le quote di mercato proprio dall’avanzata di dop, igp, stg: 818 prodotti italiani certificati grazie alla complessità della filiera, la minuziosità dei controlli, l’innovazione in distribuzione e marketing. Ovvero: prodotti semplici e tradizionali non sono affatto low tech o a basso valore aggiunto.

Tuttavia, la novità che distingue oggi l’export è la penetrazione con prodotti sofisticati, riflesso dell’innovazione. Un riscontro: l’Italia aumenta le richieste di brevetto come nessun altro paese europeo, 4.352 domande contro le 4.172 del 2016, risulta dal rapporto dell’European patent office di Monaco, +4,3% (media Ue28 +2,6%). E in America è grazie alla meccanica che si sono toccate a fine 2017 vendite per 50 miliardi di dollari, con un progresso nella classifica fornitori degli Usa dalla 15ª posizione del 2011 all’8ª, scavalcando per la prima volta proprio la Francia. Né bisogna dimenticare quell’export speciale che sono i grandi lavori: dighe, ponti, bonifiche, gasdotti, il raddoppio del Canale di Panama e il sistema di metrò a Riad di Salini-Impregilo (72% dei ricavi fuori dell’eurozona), altri grandi opere vinte da Astaldi, Condotte. Snam e Saipem dominano nelle condotte e nell’offshore, il gigante Maire Tecnimont è imbattibile negli impianti industriali di petrolchimica e fertilizzanti, ma anche la piccola Samic di Varese vanta primati nell’impiantistica per prodotti in pressione. Riusciamo perfino a vendere più libri: +10,1% i titoli di cui gli editori italiani hanno ceduto all’estero i diritti.

Perché allora piagnucolare sempre su un fantomatico paese che arranca? È in difficoltà solo quella quota di economia rimasta chiusa alla concorrenza, che non può più contare sulle svalutazioni per compensare scarsa competitività e prodotti scarsi, oltre che per alleggerire i debiti. Con l’euro molte aziende stanno benone sui mercati internazionali, sfruttando qualità e competenze invece della leva prezzo. E guadagnano meglio: un’indicazione viene da profitti e i dividenti annunciati dalle quotate. È perciò tanto più sconcertante sentire, da forze che rivendicano la guida del paese, proposte e slogan autolesionistici. Alziamo muri protezionistici per trovarne poi di più alti contro il Made in Italy? Molliamo l’euro, rendendo più cari i prodotti dall’estero, quindi danneggiando i consumatori italiani? E bisognerebbe quantomeno aspettarsi una fuga dei tanti soci esteri che hanno partecipazioni in ben 200mila società italiane. Qualche parola in libertà sui dazi da Donald Trump, il capo di una grande potenza, è bastata a scatenare un cannoneggiamento di contromisure da tutto il mondo.

Nel 1929, pensando di risolvere la grave disoccupazione, l’America decise di imporre alti dazi (Smoot-Hawley tariffs) su 900 merci importate, nonostante l’allarme lanciato da 1.000 economisti; seguirono controdazi di un paese dopo l’altro e nel 1933 con le importazioni erano crollate anche le esportazioni americane, del 60%. E quando George W. Bush nel 2002, come oggi Trump, alzò i dazi sull’acciaio, l’industria siderurgica Usa perse ricavi e 200mila posti di lavoro. Idee simili da chi ha vinto qui le elezioni causerebbero contromisure devastanti contro l’Azienda Italia. Invece le vendite in Canada di prodotti agroalimentari, una volta entrato in vigore l’accordo di libero scambio Ceta, sono aumentate dal 21 settembre del 9% (stima Cia Agricoltori), mentre è calato del 35% l’import in Italia di grano canadese. Non ci conviene proprio il protezionismo (va di moda chiamarlo sovranismo). Non è la cura per rimettere in moto le aree del paese non ancora al passo nell’avanzata del Made in Italy. La ricetta efficace è sempre quella di Adam Smith, là dove scrive che il libero commercio crea benessere.

Il libro che Capital ha preparato, The Leading Companies of Italian Export (si può richiedere a www.classabbonamenti.com), con tante storie di successo, classifiche, opinioni autorevoli. Tutte tradotte in inglese e cinese, proprio perché globale è la dimensione della migliore imprenditoria.


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