Tre passi sulla via dell’innovazione

04/01/2019 11:35
Tre passi sulla via dell’innovazione

Intervista a Elio Catania, presidente Confindustria digitale. «La via italiana al digitale impone priorità. Serve continuità nelle misure di sostegno a Industria 4.0 per i prossimi 5-7 anni»

O sei dentro o finisci tagliato fuori». Elio Catania è uno dei massimi esperti di nuove tecnologie e a chi la considera un costo o un’opzione facoltativa non lascia illusioni: «La trasformazione digitale è una strada obbligata», ammonisce, spiegando che si tratta di «una rivoluzione tecnologica che, a differenza di tutte le precedenti, sovverte il modo di fare impresa e l’amministrazione della cosa pubblica». Catanese anche di nascita, 72 anni, laurea in ingegneria alla Sapienza di Roma e master in management science al Mit di Boston, per 35 anni Catania ha lavorato per la Ibm, di cui è stato membro del board mondiale, amministratore delegato e direttore generale per l’Italia, presidente per l’America Latina e per l’Europa del sud. Cavaliere del lavoro dal 2001, presidente e amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato dal 2004 al 2006, da giugno scorso vicepresidente del Cnel, da oltre 4 anni è il numero uno di Confindustria digitale, con la quale gira l’Italia in lungo e in largo per spiegare, e predicare di non sprecare, le «enormi opportunità del digitale, che non è un’idea solo per le grandi, ma riguarda tutte le imprese, di qualunque dimensione, di qualunque settore e in qualunque parte d’Italia si trovino. Siamo di fronte a delle innovazioni tecnologiche che ridefiniscono i confini tra i mercati, hanno fatto nascere aziende diventate leader in settori di cui nemmeno facevano parte fino a pochi anni prima, stanno determinando l’uscita dal mercato di interi segmenti dell’economia».

Di cosa è fatta questa rivoluzione così dirompente? «Sono accadute essenzialmente tre cose. La prima è lo sviluppo di sensori che permettono di rilevare e misurare tutto, dalla distanza dell’auto che ci precede alla temperatura di un tessuto, al livello di ph nel sangue, a costi estremamente ridotti, parliamo di centesimi di euro». La seconda sta «nella possibilità di trasmettere tutte le informazioni generate dai sensori, e dalle persone, a costi pari a una frazione di quanto erano solo 5 anni fa». La terza: «La capacità di elaborare questa immensa mole di dati a costi industrialmente irrisori. Prima si aveva bisogno di supercomputer grandi come palazzi. Ora i modelli matematici possono essere diffusi in rete, nella cosiddetta nuvola, e utilizzati da semplici ricercatori, dagli analisti di marketing di un’azienda, così come dal tecnico che deve fare una prova di fluidodinamica di un nuovo prodotto meccanico». Sono questi tre ingredienti che messi insieme hanno generato una rivoluzione che non lascia alternative per la produttività, la crescita e lo stesso benessere di un paese.

E l’Italia a che punto è nella trasformazione digitale? «Abbiamo accumulato un grande ritardo, non abbiamo colto il valore strategico del digitale per il mondo degli affari e la pubblica amministrazione, forse pensando che si trattasse solo di un nuovo modello di computer o di una banda di connessione più larga». La responsabilità è dei leader, «dei vertici delle imprese private, di quelle pubbliche, del governo, delle istituzioni, che hanno delegato troppo spesso ai tecnici». Una miopia che ha impedito di cogliere i segni evidenti di un mondo che stava cambiando: «Abbiamo visto società che senza possedere neanche un albergo o un appartamento sono diventate numero uno mondiali per gli alloggi e il turismo. Imprese che senza avere un’automobile sono diventate giganti del trasporto individuale urbano. Aziende che mettendo insieme domanda e offerta sono riuscite a creare colossi logistici: mi riferisco a piattaforme come Alibaba o Amazon, che di fatto non possiedono i prodotti che vendono». E una trasformazione così profonda, che «mette le radici nei fondamenti dell’economia, dei modelli di business, ma anche dei modelli istituzionali e sociali, non può che essere guidata dalla leadership».

Se in Italia oggi abbiamo un gap di crescita, di occupazione e di competitività, continua Catania, è perché abbiamo perso 15 anni: «Ora siamo finalmente entrati nella fase della consapevolezza, 2 anni fa l’Italia si è messa in moto». Merito di tre iniziative: il piano strategico per la banda ultra larga, il piano nazionale Impresa 4.0 e l’agenda digitale della pubblica amministrazione. Qual è il bilancio 24 mesi dopo? «Sulla banda ultralarga la cablatura del paese procede. Grazie all’accelerazione degli investimenti pubblici e privati stiamo colmando il ritardo accumulato». Impresa 4.0 «ha dato una scossa al sistema produttivo con un piano di incentivi fiscali decisamente interessante, che responsabilizza gli imprenditori chiamandoli a investire in innovazione come fattore di crescita. Per esempio, un investimento di 100mila euro in macchine a controllo numerico con tecnologie di connessione permette di riportare nelle casse aziendali 30-35mila euro di vantaggi fiscali». Quanto alla pubblica amministrazione, «l’Agenzia per l’Italia digitale e il commissario Diego Piacentini hanno fatto un bel lavoro di inquadramento e pianificazione», ma Catania avverte che «si deve accelerare molto. Il nostro ritardo nell’uso delle tecnologie dipende in larga misura anche dal mancato traino della Pa. Se i servizi pubblici sono digitali, lo diventano anche i cittadini». Una Pa digitalizzata, inoltre, significa «grandi risparmi e maggiore etica e trasparenza, perché le tecnologie permettono di condividere e controllare molto di più». Per ora, però, «solo 200 comuni hanno l’anagrafe unica e il piano per inserire un responsabile del digitale in ogni ministero ne ha partoriti solo due in tutto».

Cento tappe già raggiunte e 25mila imprenditori incontrati: nel suo capillare giro d’Italia Elio Catania spiega cos’è e come affrontare la trasformazione digitale. «Un imprenditore non investe solo perché c’è un incentivo fiscale, ma se vede un percorso, un progetto di sviluppo per la propria azienda». Per questo in ogni regione Confindustria digitale ha voluto creare dei Digital innovation hub, centri di aiuto e supporto per gli imprenditori e calamita per mettere a sistema i numerosi poli tecnologici che in Italia esistono, ma che finora non hanno fatto rete, e per coinvolgere maggiormente le piccole e medie imprese e le 7.500 startup italiane, «microaziende estremamente brillanti, dove giovani donne e uomini stanno scommettendo il loro futuro». Quanto ai risultati, Catania lascia parlare gli esempi: «Mettendo insieme domanda e offerta con le nuove tecnologie, in Sicilia il tradizionale artigianato della ceramica ha potuto aprire a nuovi mercati internazionali e recepire le esigenze anche dei clienti più lontani». In Sardegna «ci sono aziende casearie che attaccando sensori al terreno e al collare delle pecore, riescono a misurare la qualità del latte prodotto in funzione di quanto gli animali brucano». Sempre in Sardegna, «abbiamo visto un’impresa diventare leader italiana negli infissi per finestre grazie alle tecnologie di produzione flessibile, perché è questo che significa industria 4.0, produzione flessibile: il cliente chiede quel che vuole e l’azienda, in maniera dinamica, modificando la sua linea di produzione, lo esaudisce».

L’Italia non è la Germania, paese ad altissimo contenuto manifatturiero come il nostro, ma con molte più grandi imprese che, grazie alle economie di scala, riescono a investire in innovazione trascinando la catena dei fornitori. Noi abbiamo 800mila piccole imprese manifatturiere e la sfida è aiutarle in questo passaggio. La via italiana al 4.0 è fatta a rete, come è giusto in una nazione fatta di territori. Ma se vogliamo entrare nella fase esecutiva, con la velocità di cui abbiamo bisogno, non possiamo permetterci stop and go». La via italiana al digitale impone priorità: «Continuità nelle misure di sostegno a Industria 4.0 per i prossimi 5-7 anni, gli incentivi rappresentano il lubrificante di questo grande cambiamento della struttura produttiva». E anche «un passo in più sulla governance del digitale. La trasformazione dei fondamenti economici e dei processi pubblici che sta investendo anche l’Italia sulla spinta della rivoluzione digitale è un passaggio epocale. Sulla scia delle scelte operate in Germania, Gran Bretagna, Spagna e Francia, dove è stato nominato un ministro per il digitale, la mia richiesta è che anche qui il tema salga nelle priorità politiche, con un’assegnazione di responsabilità alta nel Consiglio dei ministri esplicitamente dedicata al tema». Resta un capitolo decisivo, la formazione, per creare competenze che in Italia ancora mancano. «Abbiamo bisogno di tecnici informatici, che sono solo il 2,6% degli occupati italiani, contro una media del 3,7% in Europa, o il 6,5% della Finlandia. C’è carenza anche di operai specializzati, di meccatronici, di persone che sappiano far funzionare le macchine a controllo numerico connesse, per trarne valore e intelligenza. Troverebbero lavoro oggi stesso 80mila specialisti di big data, business analysis, cloud, cybersecurity, internet delle cose, robotica, intelligenza artificiale, digital media, web development…». Le risorse non mancano: «L’Unione europea ne sta mettendo moltissime sul digitale, si parla di 80 miliardi di euro, di cui almeno 12 saranno dedicate al tema dell’intelligenza artificiale. E lo sta facendo perché ha capito che, se c’è un modo per dare un collante economico all’Europa, questo passa proprio per l’infrastruttura digitale, le reti per far circolare idee e prodotti. Una spinta importante, che noi non possiamo permetterci di perdere».   (Alessandra Gerli)


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