Che succede se la globalizzazione fa marcia indietro

di Greg Ip 28/06/2018 15:51
Che succede se la globalizzazione fa marcia indietro

Prima le multinazionali producevano dove vendevano. Poi hanno organizzato filiere globali. Torneranno indietro? Ci vorrà tempo perché succeda. Il rischio immediato sarà un aumento dei prezzi generalizzato e minore libertà di scelta per i consumatori

In tutto il mondo gli ingranaggi della globalizzazione stanno invertendo la direzione di marcia.

Le aziende hanno dedicato decenni alla coltivazione di ogni fase della produzione in base alla posizione ottimale dei fattori di produzione (lavoro, infrastrutture, know-how). Ora, con l'aumento delle barriere commerciali, sono alle prese con il modo di localizzare nuovamente la produzione.

I piani dell’Harley-Davidson di trasferire una parte della produzione fuori dagli Stati Uniti per evitare i dazi di ritorsione dell'Unione europea sono la punta dell'iceberg.

Le case automobilistiche tedesche esportano alcuni modelli dalla Germania negli Stati Uniti e ne esportano altri dagli Stati Uniti alla Cina. Ciò non avrebbe più senso se gli Stati Uniti imponesse come promesso dazi sulle auto di fabbricazione tedesca e la Cina rispondesse con altri dazi sulle auto prodotte negli Stati Uniti. La scorsa settimana la Airbus ha avvertito che le sue operazioni nel Regno Unito potrebbero essere a rischio, dopo che la Gran Bretagna avrà lasciato l'Unione Europea, perché si basano su standard normativi unificati e sulla libera circolazione delle parti attraverso le frontiere. Bombardier ha dichiarato che avrebbe assemblato alcuni aerei in Alabama, invece che in Canada, per sfuggire ai dazi statunitensi.

Con la riorganizzazione delle filiere produttive per servire i mercati locali, il numero di posti di lavoro guadagnati e persi probabilmente finiranno per equivalersi. I costi reali sono meno evidenti: prezzi più elevati e meno possibilità di scelta per i consumatori.

Nella fase pre-globalizzazione, le multinazionali di norma producevano localmente per i mercati locali, il che evitava dazi elevati, ma significava produrre in piccole serie e a costi elevati.

Con il ridursi delle barriere commerciali e dei costi di trasporto, hanno preso forma le filiere transfrontaliere. Dopo che Stati Uniti e Canada hanno firmato l’Auto Pact nel 1965, le loro industrie automobilistiche sono diventate una sola. L'accordo di libero scambio nordamericano (Nafta) ha esteso le supply chain al Messico. Nel 1996 l’Information technology Act ha istituito il libero scambio globale per i prodotti delle tecnologie dell'informazione, stimolando le complesse filiere che collegano progettisti e ingegneri negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone con l'assemblaggio e la produzione in tutta l'Asia orientale.

I benefici per i consumatori sono stati sostanziali, anche se non se ne sono resi conto. Per esempio, la maggior parte delle auto vendute nel Brasile protezionista deve essere assemblata lì. Di conseguenza, un'utilitaria è venduta a un prezzo superiore di circa il 50% rispetto a un modello comparabile prodotto nel Messico globalizzato.

Assemblare un iPhone interamente negli Stati Uniti con componenti realizzati in America costerebbe fino a 100 dollari in più, secondo un articolo del 2016 pubblicato sul MIT Technology Review. Ciò presuppone, naturalmente, che Apple trasferisca con successo la propria filiera. Quando, sotto la pressione dell'amministrazione Obama, iniziò a montare computer ad Austin, in Texas, incontrò numerosi problemi di controllo qualità e di personale.

La globalizzazione viene regolarmente descritta come un maleficio per i lavoratori statunitensi, ma la verità è più sottile. I lavori di routine e quelli degli operai vengono esternalizzati, ma il lavoro di ricerca, marketing e progettazione di fascia alta gravita sugli Stati Uniti. Le multinazionali americane rappresentano il 23% dell'occupazione privata degli Stati Uniti, il 53% delle esportazioni e il 79% della ricerca e sviluppo, secondo l'economista Matthew Slaughter del Dartmouth College. Queste imprese pagano i lavoratori un terzo in più rispetto alla media del settore privato.

La riduzione delle imposte approvata dal Congresso americano e firmata dal presidente Donald Trump l'anno scorso aveva l'obiettivo di migliorare i punti di forza degli Stati Uniti. Abbassare l'imposta sulle società, eliminare la tassazione dei profitti esteri e imporre nuove sanzioni per il trasferimento degli utili incentivano "queste imprese che pagano di più a svolgere una parte maggiore delle loro operazioni negli Stati Uniti", aveva dichiarato allora il Consiglio degli adviser economici della Casa Bianca.

L'innalzamento delle barriere commerciali contrasterà tali vantaggi.

La reazione contro la globalizzazione è di gran lunga precedente a Trump, e ha avuto origine con l'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) nel 2001. Le aziende occidentali usavano la Cina come base da cui esportare nel resto del mondo, ma la Cina non ricambiava: utilizzava una valuta a buon mercato e una rete di barriere interne per scoraggiare le importazioni. A seguito della crisi finanziaria globale del 2008, più paesi imitarono la Cina con più incentivi per la produzione locale.

General Electric, prima della recente riorganizzazione, aveva cercato di rimodellarsi sulla base di un mondo tornato pieno di fratture localizzando una quota maggiore di produzione, investendo per esempio 200 milioni di dollari nella produzione di locomotive in India per il mercato locale. Harley-Davidson aveva già in programma di trasferire una parte della produzione motociclistica in Thailandia per servire i mercati asiatici a causa dei dazi locali.

Trump sta semplicemente cercando di copiare ciò che la Cina, l'India e altri hanno già fatto: forzare le multinazionali a produrre negli Stati Uniti più di quello che vendono all’interno. Tuttavia, l'imposizione di dazi sulle filiere produttive esistenti ha conseguenze indesiderate.

L'acciaio canadese utilizza minerale ferroso del Minnesota, quindi i dazi di Trump sono dannosi per entrambi. Secondo Bruegel, un think tank con sede a Bruxelles, circa il 17% del valore delle automobili messicane esportate negli Stati Uniti origina negli Stati Uniti.

Beckett Gas, produttore familiare di componenti per caldaie, forni e scaldabagni, nel corso degli anni ha spostato la produzione dall'estero ai suoi stabilimenti nei pressi di Cleveland. Migliorando continuamente il suo processo di produzione, ha evitato aumenti dei prezzi e ora vende in tutto il mondo. Questa riorganizzazione è compromessa dai dazi del 25% sull'acciaio importato, il fattore di produzione dominante dei prodotti Beckett. "Ci sono solo concorrenti stranieri in quello che facciamo", afferma Morrison Carter, amministratore delegato dell'azienda. Questi concorrenti hanno ora un vantaggio in termini di costi pari al 25%. Carter teme che i suoi clienti, che hanno già stabilimenti in Messico, passeranno a fornitori con sede in Messico. Si dice disposto a sopportare qualche dolore a breve termine per un livellamento a lungo termine del terreno di gioco. Ma, "Se possibile, trasferiremo la produzione nel paese di vendita se questi dazi cominceranno ad avere un aspetto permanente".

E’ ovvio che filiere produttive che hanno richiesto anni per prendere forma non cambieranno sede da un giorno all'altro. Le imprese sperano ancora che l'ondata protezionistica si esaurisca presto e che la logica della globalizzazione si riaffermi. Ma un numero crescente di aziende sta senza dubbio elaborando piani B che assomigliano molto a quelli della Harley.


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